
di FRANCESCO PELUSO –
John “William” Coltrane (Hamlet, 23 settembre 1926 – New York, 17 luglio 1967) è stato, senza alcun dubbio, uno dei maggiori compositori ed innovatori della musica afroamericana di tutti i tempi, attraversando (con ispirata genialità dal 1945 al 1967) Rhytm ‘n Blues, Be-bop, Jazz modale e Free jazz.
I ventidue anni di acclamata, e talvolta tormentata carriera, hanno tracciato una scia indelebile di originale e compiuta “lectio” musicale che, dalla prematura ed improvvisa scomparsa nel 1967, non ha smesso mai di indicare la strada maestra alle successive generazioni di musicisti; e per musicisti non si intendono solo i sassofonisti, ma tutti coloro che hanno a che fare con il Jazz e dintorni.
Parlare di “Trane” a cinquant’anni dalla sua morte non è cosa semplice: di lui si è già scritto di tutto, si è celebrata un’incalcolabile quantità di omaggi e tributi discografici, eppure mi piace ripercorrere per grandi linee la metamorfosi umana e la costante evoluzione del suo pensiero musicale.
L’esperienza con il quintetto e il sestetto di Miles Davis, ad esempio, permise l’esponenziale crescita tecnico-strumentale e creativa di Coltrane nel quinquennio 1955 – 1959, in cui si faceva via via largo nei suoi assolo una nota lamentosa, inquieta ed emotiva che contrastava sempre più spesso con il lessico di “Miles” e, per questo, lasciava scorgere futuri scenari attraverso una tensione espressiva che travalicava i comuni stereotipi delle singole frasi.
Il connubio artistico fra Davis e Coltrane, tuttavia, raggiunse il suo culmine nelle preziose sperimentazioni nell’ambito dell’improvvisazione modale con l’album Milestones (COLUMBIA 1958) e la pietra miliare Kind of Blue, pubblicato dalla stessa etichetta nel 1959.
In Giant Steps (ATLANTIC 1960) Coltrane racchiudeva il bagaglio musicale interiorizzato in quegli anni e, al contempo, la spasmodica ricerca sui “salti” che l’improvvisatore deve affrontare nei cambi di tonalità. Nella titletrack dell’album la magia della performance si stempera nella modulazione da una tonalità all’altra, finalizzata al senso musicale e filosofico dell’opera.
Per Coltrane, la scoperta del triangolo Si – Sol – Mi bemolle aveva una scientificità numerologica: la perfezione del numero “3” assume in Giant Steps un Eterno Ritorno, un vero e proprio tournaround.
Negli anni ‘60 l’assidua pratica della meditazione yoga e il continuo ispirarsi a Dio lo conducono per mano verso il suo capolavoro: A Love Supreme (IMPULSE 1964). Il disco, fra i più venduti della musica jazz di sempre, si presentava in una rigorosa veste in bianco e nero, in cui si coglieva il senso di un ringraziamento a Dio, sia nel mero contenuto musicale che nella poesia dello stesso Coltrane inserita nella parte interna della copertina: un testo semplice, un mantra dogmatico e salmodiante, una dichiarazione di fede.
Il disco che lo trascina fuori dal buio immergendolo nella luce è uno dei primi concept album della musica moderna che si sviluppava in una suite in quattro parti: Acknowledgement, Resolution, Pursuance e Psalm. Lo storico quartetto, condiviso dal sassofonista con l’alluvionale pianismo di McCoy Tyner, l’oscuro groove di Jimmy Garrison e l’irrefrenabile drumming di Elvin Jones, permetteva al gigante di Hamlet di addentrarsi in un impervio sentiero mistico, attraverso l’ossessiva circolarità di Acknowledgement, il puro lirismo innervato dalla straziante voglia di cambiamento di Resolution, la travolgente forza emotiva di Pursuance fino al raggiungimento della “Luce” nell’atmosfera metafisica di Psalm.
Quando il free-jazz esplose come movimento musicale e di lotta per i diritti raziali, John Coltrane si schierò apertamente con gli esponenti di questa incandescente e rivoluzionaria frangia di innovatori. Nonostante le aspre critiche verso questa forma estrema del jazz, Coltrane si tuffò a perdi fiato in questa nuova fase, affermando l’alto valore di quella nuova frontiera espressiva, collaborando ed incidendo con i maggiori virtuosi di quel genere: Archie Shepp, Pharoah Sanders, Marion Brown e Rashied Ali (solo per citarne alcuni).
Ascension, Meditation, Sun Sheep, Om, Kulu Se Mama, Selfm e i postumi Expression e Interstellar Space (IMPULSE 1965-67) rappresentarono le ultime schegge progettuali di un musicista e compositore a metà fra una dimensione terrena e un mondo sonoro lontano dai comuni mortali.
Nell’occhiello dell’articolo “Dal buio alla luce” ho provato a sintetizzare il turbinante percorso creativo e l’enorme materiale che “Trane” ha lasciato a coloro che ne hanno faticosamente seguito le orme. Da Wayne Shorter a Joe Henderson, da Dave Liebmman a Joe Lovano, da Johsua Redman al figlio Ravi, si è fatta largo quella continua ricerca dell’ignoto e del trascendente, nonché il viscerale legame con la tradizione della musica afroamericana che il grande maestro non ha mai rinnegato nel corso della propria evoluzione espressiva.
Dagli anni dolorosamente vissuti con il continuo uso di droga, il progressivo distacco dal Be-bop e il consapevole allontanamento dalle gabbie armoniche, il felice idillio con la prima moglie Juanita Grubbn (Naima), la straordinaria scoperta del sassofono soprano in My Favorite Things (ATLANTIC 1960), il rapporto con Dio e la ricerca di una pace interiore fino alle ultime meditazioni sulla morte, sulla teoria della relatività, sulla tematica dell’universo in espansione, sulla numerologia e sull’elaborazione del rapporto tra suono e numero, si è imperniato quel permanente bisogno di raggiungere una verità ultima, sostanziale, assoluta: “il nocciolo della verità, la crux”, come amava dire John Coltrane che, senza alcun dubbio, non ci stancheremo mai di ascoltare e riascoltare, per decodificarne le più nascoste pieghe della sua sconfinata e travolgente genialità creativa.