“In Movement”

JACK DEJOHNETTE
 di Chiara Romano

Sarà lo scenario unico di Castel Sant’Elmo, sarà la luna piena e il suo riflesso sul golfo, sarà l’aura della storia che si condensa in così altisonanti nomi del Jazz, sarà tutto questo oltre quello che resta inespresso in profondi silenzi, ma quando il trio DeJohnette – Coltrane – Garrison  inizia il concerto partenopeo di lunedì 18 luglio, dal palco arriva qualcosa che magnetizza il nostro ascolto lasciandoci con la sensazione di essere testimoni di qualcosa d’intenso non solo dal punto di vista strettamente musicale ma anche su un piano simbolico.

Impressiona leggere sul cartellone del Sant’Elmo jazz 2016: “Ravi Coltrane al sassofono e Mattew Garrison al basso”, quasi come se il bandleader e batterista “Jack DeJohnette” fosse una presenza accessoria nei confronti dei due rampolli. Il dubbio che si tratti di un trio costruito ad arte per nostalgici del jazz anni ’60 o per neofiti con l’ansia di recuperare esperienze a cui non hanno potuto assistere nel passato, dura meno di un lampo. Sfuma nella complessa intensità delle prime note alternate a intervalli di onirica sospensione che hanno la stessa architettura di una sinfonia. Tutto è affidato al basso e alla contenuta elettronica di Garrison che carica l’atmosfera di attesa e di inquietudine diluita solo dai fraseggi del tenore e del soprano di Ravi Coltrane. Mentre DeJohnette dispiega tutta la propria gamma di tocchi, da quelli raffinati e lievi a quelli più potenti ma sempre caratterizzati da una spontaneità viscerale. I suoi pattern sono da considerare tra le più innovative esplorazioni percussive che si possano ascoltare nell’ambito del jazz contemporaneo.Jack DeJohnette è un veterano (classe 1942 in attività dal 1959), tuttavia, nel suo ultimo lavoro “In Movement” (pubblicato dalll’etichetta ECM del mentore Manfred Eicher) c’è molta storia, quella sua personale risalente a cinquant’anni fa quando suonava nel gruppo di John Coltrane con il padre di Ravi, e quella collettiva che appartiene a tutti i suoi planetari estimatori. Come spesso accade per i “grandi”, le classificazioni sono tutte imperfette. Al cospetto di questa musica, i cui grafemi oltrepassano forme, linguaggi, epoche diverse, il suo fruitore è rimandato alla funzione, alla condotta di ascolto che quella musica suggerisce, all’esperienza corale e individuale che essa stessa rappresenta nel suo dispiegarsi.

Il “movement” non è solo nel dialogo tra i musicisti sul palco, e tra questi e il pubblico. C’è un movimento continuo tra passato e presente, tra individuale e collettivo, tra silenzio e rumore, tra le pause e la musica. La musica si muove e smuove al contempo. Ti impone un approccio, un’attenzione, invitandoti alla contemplazione, all’immersione, a chiudere fuori il frastuono della quotidianità per ascoltare e ascoltarsi. E’ lo stesso DeJohnette ad invitare gli spettatori a non effettuare registrazioni ma ascoltare col cuore e con la mente.

La sua musica mette in moto l’animo e la mente spingendo verso quelle domande che non hanno risposte o che trovano risposte alle quali non siamo pronti.
La questione è di più ampio orizzonte, non è tra acustica ed elettronica, classica e jazz, scrittura e improvvisazione, né se un brano sia nato oggi o il secolo scorso.
La tensione strisciante che attraversa tutto il concerto dal brano d’apertura a quello di chiusura fa da specchio all’inquietudine contemporanea, che forse era la stessa che agitava gli animi di Miles Davis e di Coltrane padre come di altri maestri di quel fecondo periodo.
Il legame col passato non è un esame che si ripete all’infinito o una competizione costante tra generazioni. Ciò che era da dimostrare, è già dimostrato, Ravi e Mattew sono emersi sulla contemporanea scena jazz come strumentisti distinti dalle ombre dei loro padri, consapevoli di un’ingombrante eredità ma ancor di più delle future linee di sviluppo della loro cifra e personalità artistica. Lo sguardo è rivolto ai nostri giorni più che al passato. 
In “Dj” trovano una natura affine per intelligenza armonica e sperimentale oltre che una connessione fra scuole, stili, stagioni differenti.
Alla luce di ciò, gli omaggi a Trane di “Alabama”, a Miles Davis di “Blue In Green”, a Jimi Hendrix e Jimmy Garrison in “Two Jimmys” assumono il giusto valore di punti di partenza o passaggio, e non certo di arrivo, del movimento musicale compiuto da questo trio. Costituiscono parte del nuovo, dell’inesplorato, dell’imprevedibile, cui ciascuno di essi è sospinto giustapponendo composizione circolare e libera improvvisazione,liricità e imperturbabilità. 

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