Dizzy Gillsepie
di Francesco Peluso

Dal 1917 al 2017 sono trascorsi cento anni, un periodo a cavallo fra due secoli, il passaggio dal controverso e tormentato XX secolo allo scintillante, tecnologico, edonistico nuovo millennio. Eppure, a cento anni da quel 1917, funestato da una sanguinosa guerra planetaria , negli States nascevano alcuni fra i nomi del jazz che avrebbero fatto la storia di questo ineguagliabile genere musicale.
Il primo disco di jazz ad opera del trombettista italo-americano Nick La Rocca, la splendida voce della dea Ella Fitzgerald (Newport News, 25 aprile 1917), la prorompente personalità della tromba di Dizzy Gillespie (Chrew, 21 ottobre 1917 ) preannunciavano, al pari di altri eventi e pionieri dell’epoca, il percorso che avrebbe divulgato, presso il più ampio numero di appassionati, la cultura musicale afroamericana. In tal senso, se per Nick La Rocca ed Ella Fitzgerald si è rilevato nel 2017 un nutrito novero di pubblicazioni celebrative (ristampe di dischi e produzioni filmiche), per l’istrionico, poliedrico e geniale Dizzy non si è, se non in rari progetti live (vedi The Phamp to Dizzy di Fabrizio Bosso e Paolo Silvestri Orchestra), rivisitata in modo adeguato l’opera del grande maestro statunitense.
Negli oltre cinquant’anni di carriera il vulcanico Gillespie è passato, dalle giovanili e brillanti partecipazioni nelle Big Band degli anni ’30 alla rivoluzione dei ’40, per tuffarsi nei creativi ’60 in poi fra i meandri della musica caraibica e sudamericana. Facendo riferimento al periodo d’oro delle Big Band, Gillespie si fece notare per la significativa presenza nelle Orchestre di Teddy Hill, Lucky Millinder, Cab Calloway, Jimmy Dorsey e Lionel Hampton nella scia di Roy Eldridge, mentre è nel ruolo di indiscusso protagonista degli anni del Bop che il trombettista trova la sua piena consacrazione artistica.
Al fianco di Bird (al secolo Charlie Parker) Dizzy si pose alla testa di una corrente del Jazz che volle fortemente riappropriarsi delle sue radici “afro”. Molti musicisti neri affermavano che, negli sfrenati anni dello Swing, avevano visto progressivamente dissolversi, ad opera dei bianchi, l’originale matrice delle Blue Notes.
Allora, ecco farsi largo il claustrofobico e fumoso “Minton’s Playhouse” di New York quale autentica palestra della nuova musica afroamericana in grado di radunare sul suo palco i maggiori talenti di quel periodo e generare, sera dopo sera, l’affermarsi di un nuovo stile che il popolo del Jazz tutt’oggi acclama a gran voce: il Be-bop. Dizzy Gillespie, Oscar Pettiford e Kenny Clarke diedero vita alla prima concreta cellula boppistica che, dopo aver attraversato un glorioso e travolgente decennio, il 15 maggio 1953 visse il suo ultimo atto nel leggendario concerto al Massey Hall di Toronto. Lo stellare The Quintet, formato da Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Bud Powell, Charlie Mingus e Max Roach, offre ai neofiti che oggi abbiano voglia di conoscere il massimo fulgore del Be-bop, un’imperdibile registrazione live. Brani come Perdido, Salt Peanuts, All the Things You Are, 52nd Street Theme, Wee (Allen’s Alley), Hot House e A Night in Tunisia regalano palpabili emozioni nel riascoltare la pietra miliare Jazz at Massey Hall (Debut Records) che celebra nei suoi solchi la fine di quella forma stilistica con un travolgente turbine di note, un serrato rincorrersi di assoli, un susseguirsi di vertiginosi tappeti ritmici.
Il post-bop, altresì, ha rappresentato nella carriera dell’irrefrenabile Gillespie una fase non meno luminosa di quelle già enunciate. L’aver effettuato una fusione fra generi diversi in un crogiuolo di ritmi latini lo elevò al ruolo di padre di una nuova forma stilistica del Jazz, in seguito denominata musica afro-cubana. Composizioni, quali Manteca e Tin Tin Deo ne hanno rappresentato una chiara dichiarazione d’amore; in seguito, la scoperta nel 1977 a Cuba del trombettista Arturo Sandoval e molti altri talenti di quell’area geografica lo proiettarono definitivamente verso i ritmi latini.
Ricordato per due aspetti caratterizzanti la sua immagine scenica, ovvero la famosa tromba con la campana rivolta in alto e il non comune gonfiore assunto dalle guance quando suonava, Dizzy Gillespie ha sempre ricoperto un ruolo di assoluto primo piano nel Jazz internazionale. La mitica tromba con la campana piegata, frutto di un fortuito incidente di scena, lo convinse a non modificare quella non comune difformità per via di una migliore accessibilità alla lettura delle partiture ed una più squillante timbrica, quest’ultima di grande effetto negli angusti Jazz Club. Per questo, in seguito sarà lo stesso virtuoso d’oltreoceano a far realizzare una nuova tromba con una campana rivolta verso l’alto con una specifica angolazione di 45°.
Il personalissimo gonfiore delle guance, invece, spuntò con l’avanzare dell’età senza che Dizzy ne conoscesse una concreta motivazione: anche questo aspetto, aggiunto alla propria innata simpatia, finì per accrescere la sua notorietà presso i tanti appassionati di Jazz e non solo.
Punto di congiunzione fra la Tradizione di Louis Armstrong del periodo Hot Five / Hot Seven (a cavallo degli anni 20/30) e il miglior Miles Davis (1965/1968) alla testa del suo leggendario “Quintet”, Dizzy Gillespie ha donato ai suoi estimatori il suo suono colmo di assoluta originalità e vibrante energia formale che, sebbene nell’ultimo periodo della sua lunga carriera abbia subito qualche lieve incrinatura nei faticosi live, deve considerarsi, senza ombra di dubbio, una lectio magistralis per tutti i trombettisti appartenenti alle ultime tre generazioni.
Bellissimi album come Swing Low, Sweet Cadillac (IMPULSE! 1967) o The Trumpet Kings at Montreux ‘75 (PABLO 1975) con Roy Eldridge e Clark Terry, aggiunti all’immancabile produzione discografica con Charlie Parker Bird & Diz (CLEF/VERVE 1952), compongono un cospicuo ed imperdibile novero di dischi che vale la pena riascoltare con la dovuta attenzione per ricordare o conoscere un vero genio della musica del ‘900.