Gli anni passano, il mito resta

JOHN  MCLAUGHLIN
 Di Pasquale Totaro

Forse non c’è più l’attività frenetica degli anni passati ma non si può non riconoscere che John McLaughlin, classe 1942, a 74 anni suonati sia ancora un vulcano in piena attività. Eppure di esperienze appaganti ne ha avute, fino ad arrivare nell’olimpo dei grandi del jazz: dalla Mahavishnu Orchestra degli anni settanta alle sonorità acustiche di Shakti, al mitico trio con Paco De Lucia e Al Di Meola, ai progetti più avanzati ed intimisti degli album solisti, alle numerose e fruttuose collaborazioni ricercate sempre con particolare attenzione. Nonostante tutto McLaughlin ha conservato negli anni l’immagine dell’antidivo per eccellenza, sempre sorridente e disponibile con tutti: fans, numerosissimi e, neanche a dirlo, fedelissimi, e giornalisti. Un antidivo che condivide volentieri i suoi amori in rete, sul suo sito si possono trovare, commentate con l’orgoglio di chi parla di un figlio, le sue esperienze discografiche fino alla minuziosa descrizione della sua strumentazione, dalla preamplificazione alla campionatura dei suoni, alle amate chitarre. Tutte trovano il loro giusto spazio: le numerose Gibson e Godin, le acustiche del liutaio Abhram Wechter, l’aggressiva Paul Red Smith e, non poteva mancare, una Stratocaster bianca del 1968 che ha dovuto rimpiazzare quella prestata a Jeff Beck e mai restituita perché rubata. Su tutto questo una passione vera e totale per il suo lavoro che si traduce in una ricerca di suoni e tecnica, già di per se stratosferica. Così i fraseggi dei suoi assolo si ampliano sempre verso nuove inesplorate soluzioni sonore mentre è inarrestabile la ricerca di nuove tecniche per la ritmica, si ascoltino le registrazioni acustiche con De Lucia e Al Di Meola o gli esperimenti su dischi considerati minori, con troppa superficialità, come Adventures in Radioland. Quel disco sancì negli anni ottanta la ricostruzione della Mahavishnu con Bill Evans e il granitico bassista Jonas Hellborg. Fece seguito un interessante tour, che toccò anche l’Italia, in duo con Hellborg; solo basso e chitarra, una acustica con corde di nylon, opera del liutaio Wechter, suonata con il plettro. Ricordo piacevole e indelebile per tutti coloro che, come chi scrive, ebbero la fortuna di assistere all’evento.

Si potrebbe scrivere davvero tanto su John McLaughlin, è quindi una scelta obbligata per quanto non limitativa analizzare alcuni dei passi più significativi dei suoi ultimi anni di attività.

Dieci anni fa, nel 2006, usciva sul mercato “Industrial zen” crocevia di influenze musicali sospese tra rock, jazz, fusion e word music. Il titolo è volutamente contraddittorio e avvicina la frenetica attività del mondo industriale alla tranquillità della meditazione zen. È un disco di svolta, su cui McLaughlin punta molto per gli sviluppi futuri dei suoi orizzonti musicali. Le sonorità elettroniche sono molto più presenti che in passato ed emerge la voglia di confrontarsi con grandi musicisti, soprattutto giovani, per soddisfare una smisurata voglia di crescere. Così tra i tantissimi nomi che hanno collaborato al disco troviamo: un emergente Eric Johnson, Gary Husband, la vocalist Shankar Mahadevan, affianco ai più rodati Bill Evans, Vinnie Colaiuta, Dennis Chambers. Le otto composizioni sono eseguite da ensamble sempre diversi; toccanti sono gli omaggi a Jaco Pastorius e Michael Brecker.

Due anni dopo, nel 2008, nuovo lavoro, nuova pietra miliare e nuova ispirazione. Il titolo è Floating Point e per inciderlo McLaughlin si avvale principalmente di musicisti indiani. Leggendo i nomi si potrebbe pensare a una riedizione dell’esperienza Shakti e magari un musicista qualsiasi, in età avanzata, troverebbe sicuramente comodo rimescolare successi del passato, non John McLaughlin. Il disco, molto bello, si attesta su elevati livelli jazz e fusion.

Nel 2009 un nuovo capitolo: la Five Peace Band con Chick Corea, Vinnie Colaiuta, Kenny Garrett e Christian McBride. Grande tour e grande cd e ancora sonorità diverse, questa volta più vicine al jazz.

I tempi sono maturi per un’ennesima ed ispirata svolta e un nuovo disco. Nel 2010 esce To The One a nome di John McLaughlin e i 4th Dimension. La formazione comprende: Gary Husband, tastiere e batteria, Etienne Mbappe, basso, e Ranjit Barot, batteria e voce. Fonte di ispirazione è la spiritualità con i grandi interrogativi sul significato della vita che questa comporta. Sono temi da sempre cari al chitarrista che hanno spesso caratterizzato i suoi lavori. Il riferimento, apertamente dichiarato, è A Love Supreme di John Coltrane, capolavoro discografico del 1965 e punto di incontro del jazz con i temi mistici che in quel periodo influenzavano il sassofonista. Questo disco folgorò un giovane McLaughlin, allora ventitreenne, influenzandone in modo indelebile la sua produzione musicale. Coltrane è sempre stato fonte di ispirazione per il chitarrista con continui riferimenti, in particolare il disco con Santana e After The Rain a metà anni 90. In To The One le sonorità sono definitivamente elettriche con sperimentazioni di suoni elettronici. Il disco, sei tracce di rara bellezza, è suonato benissimo da un gruppo coeso e pronto a seguire il leader nelle sue escursioni sonore. Anche la chitarra maggiormente utilizzata, una Paul Red Smith, la dice lunga sulla ricercata aggressività del suono.

L’esperienza con la quarta dimensione prosegue negli anni successivi con altre due produzioni. Nel 2012 esce Now Here Is. Il disco è una conferma della bontà del percorso intrapreso dal chitarrista e nel 2014 l’esperienza viene suggellata dalla registrazione di un pregevole concerto al Berklee College of Music di Boston dove non manca un esplicito riferimento all’esperienza Mahavishnu con il brano “You Know, You Know”.

Alla fine del 2015 esce Black Light, il disco è attribuito al solo John McLaughlin che ne rivendica la paternità senza condividerla con i 4th Dimension. Può sembrare una vanità, visto che comunque Husband, Mbappe e Barot lo accompagnano in tutti i brani, il fatto è che John non è nuovo a queste scelte, si è spesso ritagliato titoli esclusivamente suoi e per capirne le motivazioni basta semplicemente ascoltarli. I brani sono, per ammissione dello stesso artista, un viaggio nel suo mondo interiore, sono espressione delle diverse influenze culturali che inevitabilmente lo hanno interessato e formato in quella ricerca senza soluzione di continuità che è stata la sua vita artistica. In quest’ottica non potevano mancare i tributi agli amici più cari, in modo particolare Ravi Shankar e Paco De Lucia. È indubbiamente un disco espressione della grande maturità raggiunta, è come se, superati i settanta, McLaughlin abbia deciso per un attimo di voltarsi indietro e di dare uno sguardo alla sua intensa vita. Da ripercorrere ha avuto davvero molto, a dire il vero l’immagine che io preferisco è quella del McLaughlin adolescente al quale, come ha raccontato in un libro che ha avuto il tempo di scrivere, i genitori hanno regalato la prima chitarra salvo poi sequestraglierla perché continuava a suonare nonostante gli sanguinassero le dita. Non fosse stato così non avremmo mai ascoltato quei fraseggi, veloci e precisi tanto da far suonare la sua chitarra synth come una tastiera, con suoni perfetti senza alcuna sbavatura.

Il disco è composto da otto brani, ognuno con la sua chiave di lettura ma tutti con un unico comune denominatore: la chitarra e la musicalità di John McLaughlin. Apertura con “Here Come The Jiis”, che, pur con suoni attuali, ci riporta ad alcune sonorità della prima Mahavishnu. Appena il tempo del tema introduttivo e il primo solo chiarisce subito che John è davvero in gran forma.

Clap Your Hand” si distingue per la ritmica molto cadenzata e l’aggressivo solo di chitarra.

Being You Being Me”, brano davvero accattivante, è molto intimista ed è espressione dell’aspetto
spirituale della musica di John che ha modo di scrivere: “la vera evoluzione dell’umanità si avrà quando riusciremo a vedere Dio in ognuno di noi”. Misurato e di grande effetto è l’uso della chitarra synth.

Panditji” è il brano dedicato a Ravi Shankar dove inevitabilmente riemergono suoni etnici che avevano caratterizzato il periodo Shakti. Particolari sono i vocalizzi di Ranjit Barot, da ascoltare anche in “Clap Your Hand” e “360 Flip”, e nel finale c’è spazio per il basso di Etienne Mbappe.

360 Flip” è un modo di vedere le cose diversamente facendo girare la mente a 360 gradi, davvero belli gli assoli.

El Hombre Que Sabia” è il brano dedicato all’indimenticabile Paco de Lucia. In un disco esclusivamente elettrico John imbraccia l’acustica per questo brano che avrebbe dovuto registrare proprio con il chitarrista spagnolo. Il brano è emozionante e particolarmente riuscito con l’apporto degli attuali compagni di viaggio di John. Mi piace pensare che De Lucia lo avrebbe apprezzato molto.

 

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