Realismo poetico e geniale goliardia

Enzo Jannacci 
 Di Stefano Bagnoli

Enzo è stato uno dei miei tanti “papà” artistici; sono cresciuto musicalmente anche grazie a vent’anni passati insieme alla sua musica nella duplice veste di musicista e “figlioccio”. Sono legato alla famiglia Jannacci dal 1994, anno in cui il manager di Enzo, Paolo Guerra, mi telefonò per chiedermi se volevo entrare nel team. Grande emozione e molta tensione poiché era il mio primo tour “vero” con interazioni musicali e professionali impegnative distanti dal mio quotidiano; dovevo essere in grado di affrontare il palco in una veste nuova rispetto al mio consueto ruolo di batterista jazz tout court. Divenni, a prima vista, amico anche del figlio Paolo e, da allora, la nostra collaborazione non si è mai allentata; anche oggi che Enzo non c’è più, portiamo in giro un bellissimo progetto dal titolo “In concerto con Enzo”, uno spettacolo nel quale Paolo ripresenta le canzoni del padre, proposte così come le suonavamo insieme all’autore, evitando accuratamente di voler clonare un irripetibile e improbabile “Enzo Jannacci Due”, rendendo omaggio ad un repertorio vastissimo e famosissimo che suoniamo con grande emotività. La voce di Paolo non imita il padre ma gli rende omaggio a modo suo, in maniera spontanea e confidenziale. Quando suoniamo, Enzo è nell’aria, non ne sentiamo una commossa mancanza, bensì la divertita presenza. Enzo era un uomo molto generoso, molto sensibile e creativo. I suoi esordi in veste di pianista jazz, linguaggio grazie al quale nel tempo plasmò il suo teatro e le sue visionarie canzoni. I ricordi “antichi” di mio papà Gigi che mi raccontava del Santa Tecla in centro a Milano dove si esibiva settimanalmente insieme a mio zio Carlo e la loro band “Milan College Jazz Society” a cui un giovane Jannacci si univa di frequente a loro in jam session. Esiste, a mio parere, nei confronti di Enzo, un’irriverente e sempliciotta attenzione del grande pubblico che non buca quella superficie estetica popolare da macchietta sgangherata che, a cavallo tra lo spontaneo e il voluto, gli si è cucita addosso. Da generazioni tutti canticchiamo Vengo anch’io, no tu no quale riff popolare senza dar troppo peso al contenuto tragico della storia di questo disgraziato al quale viene negato di andare persino al proprio funerale! Sono decine e decine i testi di Enzo che hanno una forza sociale e psicologica pesantissima, eppure, talvolta parole e note rimangono (sempre per i disattenti) solo divertenti canzonette alle quali non dar troppi significati intimi o drammatici. Un po’ come dire che Louis Armstrong era quel pittoresco personaggio con la voce roca che cantava O Uandessen Go Macinin, senza pensare quanta storia ci sia stata dietro quella facciata commerciale e popolare che viceversa ha segnato un’epoca e un linguaggio musicale universalmente nuovo. Talvolta chi si sofferma a liquidare Enzo come un cantante neanche troppo intonato, non ha capito nulla della sua essenza e del suo pathos interpretativo. Anche Art Blakey aveva un centesimo della tecnica di Buddy Rich eppure ciò non ne ha mortificato lo spessore artistico. Enzo che a volte biascicava le frasi ma che era un forbito conferenziere per farsi capire nei momenti delicati o importanti. Enzo che era anche un pazzo scatenato, genio e sregolatezza tanto saggio e acuto quanto goliardico e monello. Paolo Tomelleri, con il quale ho condiviso i miei primi vent’anni di carriera sino all’anno 2000, è stato una sorta di fratello per Enzo. Paolo racconta episodi esilaranti e al tempo stesso drammatici come ad esempio quella volta, negli anni ’60, in cui Enzo volle guidare l’auto nuova di Tomelleri il quale, conoscendo le pazzie dell’amico, si premurò con mille raccomandazioni e attenzioni considerando le accortezze dovute ad un’auto lustra e fiammante ancora in rodaggio. Nonostante ciò, appena messosi al volante, Enzo partì con un rombo di motore sgommando e perdendo il controllo della situazione piombando dopo poche centinaia di metri nel canale che scorreva accanto ad una strada di campagna nei dintorni dell’Idroscalo, allorché Tomelleri, tirò fuori un fucile dal baule (Tomelleri è un collezionista di antiquariato, comprese armi storiche) e puntandolo contro Enzo lo obbligò a occuparsi di rimediare al danno in seduta stante. Ricordo quando partecipammo con la Jannacci band a “Il Laureato Bis” di Piero Chiambretti e, poco prima della diretta televisiva, Enzo prendeva la custodia del sassofono di Tomelleri e la buttava nel cassonetto dell’immondizia; o quando presentava al pubblico l’altro suo amico storico, Pino Sacchetti, come “il peggior sassofonista del mondo”. Ricordo un concerto dei miei primi tempi in cui attaccai l’intro di batteria prestabilita per il brano Ci vuole orecchio ad una velocità troppo elevata… Enzo iniziò la prima strofa dopodiché chiuse il brano dopo poche misure e mi guardò scoppiando a ridere. Il pubblico ovviamente non capì che razza di sketch fosse in atto: sta di fatto che Enzo con noi musicisti si è sempre messo alla pari e, se qualcuno sbagliava, si metteva a ridere senza mettere in tensione alcuno.
La forza di un grande artista da cui non trapelava nessun tipo di insicurezza legato alla performance di gruppo, anzi, si metteva in discussione insieme alla band se qualcosa andava storto. Immaginatevi un altro artista pop che non sente bene il metronomo del batterista o un colpo di piatto non esattamente dov’era la sera prima, o l’entrata millimetrica della chitarra o un accordo non preciso sul battere: panico e tragedia… ebbene, Enzo era un jazzista nell’anima e non aveva bisogno di queste coperte di Linus per sostenere il palco e il pubblico. Se qualcuno sbagliava, pazienza! il flusso e l’energia della sua musica e l’affiatamento del gruppo non veniva neppure scalfito (Fabio Concato è un altro artista che ha questo approccio musicale intuitivo e jazzistico nell’animo). Enzo era della “vecchia” scuola, una vita artistica costruita a lungo termine e coltivata attraverso l’esperienza quotidiana, caricandosi sulle spalle tonnellate di musica ascoltata, sperimentata, assimilata e sviscerata al fine di tramutare il proprio talento in personalità e scuola di pensiero. Ho girato l’Italia in lungo e in largo per anni in tour lunghissimi con concerti riuscitissimi e altri meno apprezzati, a causa dell’estrema sensibilità di Enzo che poteva rendere un suo spettacolo commovente e comicamente indimenticabile, oppure turbato e frettoloso. Tutto dipendeva dalla risposta del pubblico. Enzo non era un calcolatore freddo ed indifferente all’energia e all’interazione col pubblico; il concerto era il suo “io” profondo con la sua band e con il pubblico; senza uno di questi tre ingredienti complementari, senza questa alchimia il sacro fuoco interno si affievoliva. Era imprescindibile un filo conduttore per il quale non era sufficiente un bel teatro, un viaggio comodo, un bell’hotel e un’ottima cena a sedare l’esigenza di Enzo di pretendere da se stesso un contatto confidenziale e casereccio con il pubblico, senza barriere emotive negative. Jannacci teatrante con il quale facemmo un tour (non ricordo l’anno esatto) in cui tutti noi, oltre a suonare, recitavamo. Ricordo un concerto memorabile insieme a Dario Fo in cui lui ed Enzo duettavano La luna e la lampandina oltre a Ho visto un re. Ricordo, riascoltando i tanti dischi che ho registrato con lui, quell’episodio in cui dopo aver fatto e rifatto una base di batteria su di un brano, persi la pazienza e urlai “basta, adesso questa è l’ultima volta perché mi sono rotto”! Enzo mi guarda come si guarda un pazzo pericoloso da assecondare per poi mettersi a ridere sedando il momento di sclero del suo batterista… Jannacci commovente in quell’altro tour nel meridione in cui proponeva solo le sue canzoni in dialetto milanese con tanto di schermo con i sottotitoli in italiano. Ricordo una settimana sold out in teatro a Messina con la gente divertita e commossa ad ascoltare le storie della Milano nebbiosa e affaticata degli anni ’50, con lo sferragliare dei tram, con le fabbriche austere, con le case di ringhiera e le donne con lo scialle ad aspettare il marito stremato dalla catena di montaggio. Vincenzina davanti la fabbrica, un mondo di vita vissuta con dignitosa fatica; un repertorio che spaziava da Il telegrafista a Ho visto un re nel quale ce la facevamo addosso dal ridere per le castronerie che Enzo si inventava oltre il testo originale, coinvolgendo tutti noi e il pubblico. Jannacci politico e medico che dedicava alcune giornate nel suo ambulatorio per le visite gratuite ai poveri. La puntata del programma di Fabio Fazio in onore ad Enzo (con lui stesso presente benché sofferente e provato dalla malattia) assieme a tutto il gotha cabarettistico nazionale, da Fo ad Albanese, Cochi e Renato, Boldi, Teocoli, Ale e Franz, Paolo Rossi oltre a Ornella Vanoni, alla quale Enzo calpestò per sbaglio un piede con relativo urlo a squarciagola della vittima e una mia risata incontenibile. Ho trascorso una vita con Enzo e Paolino, è stato bello e lo è tuttora; io, jazzista a tempo pieno, pur con questo spiraglio perennemente aperto in un mondo musicale parallelo, ho condiviso l’essenza del Jazz dentro un vestito di teatro e pura goliardia, emozione e commozione, in una parola: vita, ovvero, il senso del Jazz stesso, al di là dei testi e delle armonie.
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